PeriferiEst

PeriferieEST è un reportage sulle migrazioni dell’est europeo. Un viaggio compiuto in diverse tappe tra Romania, Repubblica di Moldavia,per arrivare fino alle baraccopoli di Bologna dove molte famiglie di migranti, arrivando in città, hanno trovato un primo rifugio.
“Ho scelto i popoli dell’est perché credo che ancora oggi siano quelli più vicini ma che si conoscano meno. La parte più difficile del lavoro è stata certamente quella di farsi accettare, capire cosa si aspettavano da me e quando dovevo fermarmi per non tradire la loro fiducia.”
Un lavoro costruito in diversi anni, dal 2002 al 2005 durante i quali Luca Bolognese ha viaggiato da solo, facendo autostop o prendendo passaggi sugli autobus di linea per integrarsi con la gente del posto.
A Bologna, per sei mesi, ha frequentato le famiglie che vivevano nelle baraccopoli, condividendo i momenti della loro vita quotidiana e le loro storie.
PeriferieEST è un reportage fotografico dove ciascuno scatto testimonia il rapporto intenso, la relazione di fiducia tra il fotografo ed i suoi “soggetti”.
Testo di Maria Chiara Wang
PeriferieEst è un’antologia di immagini relative alle popolazioni degli slum dei paesi dell’Est (Romania e Moldavia), un’importante documentazione sociale che rivela la sensibilità etno-antropologica del suo autore: Luca Bolognese.L’umanità di questi milieu viene ritratta secondo una visione fotografica capace di evidenziare la bellezza presente in ogni soggetto e di conferire dignità anche a coloro che spesso vengono emarginati. Le fotografie non sono solo una testimonianza e una registrazione oggettiva di persone ed eventi, ma anche un’interpretazione ed una valutazione del mondo: l’arte può, pertanto, svegliare le coscienze e influenzare la morale. Come sosteneva Susan Sontag “ siamo ammaestrati dalle fotografie perché la visione comune tende ad adattarsi alle fotografie‘‘. Consapevole di tali implicazioni Luca Bolognese si avvicina a coloro che desidera ritrarre con rispetto e con un sincero desiderio di conoscenza; è così che riesce a guadagnare la loro fiducia, instaurare un dialogo, ed è proprio da questo tipo di rapporto che nascono ritratti di uomini, donne e bambini che puntano il loro sguardo fermo e fiero dentro l’obiettivo. I soggetti si rivelano spontaneamente, prestandosi al gioco della posa - ‘poso e so che sto posando’ - coscienti e consapevoli dell’atto al quale partecipano. I visi diventano maschere che rappresentano la propria realtà sociale immersa in una porzione di spazio e di tempo che si può estendere potenzialmente senza limiti all’’ovunque’ e al ‘per sempre’, parlando la lingua universale dell’immagine. Missione etica ed estetica riescono dunque a coincidere in questa serie di scatti analogici in bianco e nero. Ma come far sì che la carica emotiva che garantisce la preservazione del contenuto etico si conservi nel tempo e non venga risucchiata e annullata dall’odierna furia iconic, dal flusso continuo, caotico e trasparente delle immagini della società contemporanea? Come creare fotografie ‘ferma-sguardo’ in grado di interrompere e sospendere lo scorrere del tempo? Come ottenere uno spectateur émancipé, attivamente partecipe alla fruizione dell’opera? La nostra risposta è: con il dialogo, coinvolgendo il pubblico e invitandolo a creare una propria sequenza narrativa a partire dai frammenti proposti, ovvero invogliando ciascuno a partecipare fisicamente ed emotivamente alla decostruzione e ricostruzione dell’opera assegnando un nuovo ordine, una disposizione differente, ai 30 scatti che ruotano attorno a quello fisso principale. Lo sguardo sollecitato si muoverà oltre i confini della cornice che fa da perno per rintracciare i capitoli del proprio racconto. Il risultato sarà una costellazione di immagini dialettiche che esce dalla fissa bidimensionalità tipica dell’espressione fotografica per muoversi nello spazio.